fotografia, fotocrazia, psicologia, gastroenterologia
Se non avete ancora letto Michele Smargiassi sulla psicologia della Gestalt applicata alla fotografia, vi invito a farlo.
Sposo appieno la chiosa finale:
[…] temo che se ci prende troppo la mano la fotografia della Gestalt ci invogli un po’ ad ammazzare la fotografia.
Mi ha smosso un coso che stava lì da un po’
C’è un insieme di conoscenze che confeziona la fotografia perfetta. La classe delle fotografie perfette risponde a requisiti perfetti.
Uno. Restituisce sempre qualcosa che si colloca nella zona di sicurezza, dove sei a tuo agio e ti guardi meno le spalle.
Due. È fruibile, come un cavallo di Troia che penetra senza troppa consapevolezza. Conosce la psicologia della Gestalt e la usa. Magari chi la crea non l’ha nemmeno sentita nominare ciononostante ne applica un po’ acquisita chissà dove da fonti indirette. Penetra e ti trova a gambe aperte.
Che poi se c’è una cosa che mi fa alzare il muro è proprio quando vedo qualcosa palesemente confezionato per piacermi, quando sgamo il teasing, la strategia di persuasione o la manovra di marketing e non posso far altro che chiedermi se questo qui davanti non mi stia per caso considerando un coglione.
Tre. È il compito del primo della classe. Leziosamente curato per aderire ai canoni e puntare al voto. Tecnicamente ineccepibile, o almeno ambisce. Concepita per avere popolarità. Very very pop.
Quattro. Non serve a un cazzo.
Che poi non c’è niente di male ad essere pop. Ma non è che sia sempre lo stesso pop: c’è pop e pop. È come fotografare di pancia: mica in pancia mettiam tutti le stesse sostanze… O no?
Che va benissimo fotografare di pancia, anzi, sarebbe da fotografare solo così.
Senza voler dissacrare Cartier-Bresson e Adams… Ok: fotografare sarà pure porre sulla stessa linea eccetera eccetera e nelle fotografie metti tutte le immagini che hai visto eccetera eccetera… ma c’è almeno un passaggio in più.
Tutto quel po’ po’ lì te lo metti in pancia.
E da lì nasce. La fotografia deve venire su come un rutto.